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Categoria: Giugno 2023
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Numero 216 - Giugno 2023

“Nomina sunt consequentia rerum”, i nomi sono conseguenti alle cose, citava Dante nella Vita Nuova. Ma è vero anche il contrario, cioè che le cose, o meglio, il concetto che abbiamo di esse, è conseguente al nome che viene dato loro, perché l'etichetta condiziona la nostra interpretazione.

 

La scuola dell'infanzia ha questo nome dal 1991. Prima si chiamava scuola materna, e prima ancora, asilo. Eppure, nella conversazione comune e diffusa, queste due denominazioni sono ancora assolutamente prevalenti, e portano con sé un modello mentale che assegna alla scuola che accoglie i bambini fra i tre e i sei anni la palma di scuola incompresa e poco considerata.

Questo deriva da un quadro complesso e composito di ragioni, che meriterebbero di essere analizzate e approfondite una per una. Oltre al retaggio storico duro da smantellare, vi sono anche contraddizioni normative irrisolte.

Nata come “asilo” per bambini bisognosi e come servizio alle madri lavoratrici, tuttora la scuola dell'infanzia viene considerata come servizio alle famiglie e non come scuola a tutti gli effetti.

L'intenzionalità e la progettualità didattica del corpo docente hanno invece come destinatario – come è giusto che sia – il bambino, compreso e valorizzato nelle sue reali potenzialità e nelle sue esigenze di sviluppo e di crescita.

Nell'immaginario collettivo, tuttavia, la scuola dell'infanzia continua ad essere un luogo in cui la madre lascia il bambino affinché venga custodito e si diverta, permettendole di svolgere serenamente i suoi impegni lavorativi e personali. Lo spostamento degli interessi primari avviene quindi dal bambino alla madre, con tutto il fraintendimento e il depotenziamento che ne deriva, e la responsabilità educativa viene demandata esclusivamente alla scuola, fatte salve le pressanti richieste di rispondere alle esigenze familiari.

Sicuramente a questo fraintendimento contribuiscono significativamente anche altri due fattori: il fatto che la scuola dell'infanzia non sia obbligatoria, e quindi non richieda una frequenza costante e assidua, e la mancanza delle cosiddette discipline – le “materie”, come si diceva un tempo.

Quest'ultima circostanza rende molto difficile immaginare e comprendere cosa realmente si faccia, come lo si faccia e perché, spesso perfino da parte dei docenti degli altri ordini di scuola, che non hanno una formazione specifica sui “campi di esperienza”.

Anche la nozione vaga di “gioco”, inteso dai più esclusivamente come attività di evasione libera, spontanea e gratificante, senza significati formativi specifici e senza intenzionalità didattica, contribuisce a svilire l'immagine della scuola dell'infanzia.

A questo si aggiungono le contraddizioni normative, come accennato in precedenza. Attualmente per diventare insegnanti nella scuola dell'infanzia il decisore politico ha stabilito che sia necessario possedere la laurea in Scienze della formazione primaria – una delle poche lauree magistrali a ciclo unico in Italia – e superare un concorso, tuttavia, a fronte di un orario settimanale di 25 ore, la retribuzione degli insegnanti è nettamente inferiore a quella degli altri docenti, sia in termini assoluti che su base oraria.

Che il fraintendimento sulla vera natura della scuola dell'infanzia sia tuttora presente anche in ambito ministeriale è evidente anche dalla contraddizione fra i documenti che la riguardano, come ad esempio le Indicazioni nazionali del 2012 e i Nuovi scenari del 2018 e la bozza delle Linee pedagogiche 0-6 del 2021.

Nelle Indicazioni nazionali e nei Nuovi scenari si è assistito al dispiegamento di un solido impianto metodologico e pedagogico-didattico, che comprende e orienta validamente l'azione educativa e formativa della scuola e del corpo docente, incorniciandola in un quadro di competenze professionali di livello universitario.

La bozza delle Linee pedagogiche 0-6 rappresenta, invece, un passo indietro nella concezione della scuola dell'infanzia, presentata nuovamente come servizio alle famiglie e come segmento di scuola che non si differenza poi molto dal servizio educativo dei nidi. Nel quadro di questo documento non viene riconosciuta in modo approfondito la specificità di nessuno dei due ordini e non vengono messe al primo posto le necessità dei veri destinatari, ignorando le difficoltà della condivisione della responsabilità educativa fra scuola e famiglia, invocata come necessaria, ma di fatto non ben compresa.

Per concludere, sottolineiamo che fino a quando la nozione di infanzia non si sarà emancipata da modelli riduttivi e la legislazione non avrà recepito l'importanza, la dignità e la complessità progettuale dell'attività dell'insegnamento nella scuola dell'infanzia, nonostante le mille dichiarazioni d'intenti le condizioni lavorative del corpo docente continueranno a peggiorare. Le docenti – usiamo il termine al femminile perché la stragrande maggioranza delle insegnanti sono donne – si trovano quotidianamente alle prese con difficoltà stressanti: problemi di comunicazione e di condivisione della responsabilità educativa con le famiglie e i bambini, dovute anche alla crescita di iscritti non italofoni, specialmente in certe zone dell'Italia; sezioni sovraffollate in spazi non adeguati; presenza cronicamente insufficiente del personale di sostegno e turn-over annuale; mancanza di copertura per le supplenze; obblighi burocratici crescenti, e per finire, obblighi di aggiornamento su tematiche chiaramente progettate senza tener conto della realtà specifica della scuola dell'infanzia, vista, anche nell'organizzazione della formazione dei docenti, come una sorta di vago sottoprodotto semplificato della scuola primaria.

Maria Nice Costantino