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OTTOBRE 2008 E I GENITORI? I genitori italiani amano davvero i loro figli? Il vecchio professore entra in classe, guarda i trenta allievi che ormai sempre di più costipano le aule della sempre più depauperabile scuola italiana. Pensa che è da un bel po’ di tempo che insegna, ma che i suoi quasi sessant’anni sono l’età media dei suoi colleghi e che questo governo, così piacente, siliconato e giovanile, intende alzarla ancora di molto, l’incauta età degli insegnanti, lasciando fuori dal mestiere dell’istruzione “i giovani” (ormai da intendere latu sensu: trentenni, quarantenni)… Pensa insomma a questa scuola senile e povera, di insegnanti anzianotti tenuti a passare civiltà e sapere (la vena d’oro della tradizione!) a classi strapiene, anche di allievi non italiani, anche di diversamente abili. E lui lo sa fin dentro le sue ossa cosa sia una lezione a TRENTA ragazzi. Ma è questo che hanno votato, che hanno voluto, i genitori dei milioni di bambini e di ragazzi della scuola italiana? Classi di trenta e più studenti affidati a insegnanti sessantenni? In quale “impresa” (l’Italia governata da “un grande imprenditore” come un’azienda!) si potrebbe pretendere che venga preso sul serio un tale piano di rilancio? Eppure. E’ che non hanno contato davvero, posto che nella mente dei genitori siano esistiti mai, i fatti. I fatti. Per esempio: più facile per un trentenne laureato diventare ministro dell’istruzione che avere un precarissimo posto di docente da mille e duecento euro al mese (licenziato a giugno ogni anno) in un molto periferico istituto professionale di provincia. Con la riforma Berlusconi-Tremonti-Gelmini è diventato impossibile. Ai genitori queste cose così macroscopiche e “pre-politiche” interessano? Pare poco o niente. Il mito di una scuola partecipata dai genitori è fallita forse da sempre: è già un’impresa ogni anno trovare qualche padre o madre di buon cuore che accetti di farsi eleggere in un consiglio di classe, figurarsi d’istituto; moltissimi sono i genitori che non vengono mai a chiedere come vanno i figli a scuola, e quelli che vengono sono per lo più interessati ai voti. Conta però che così si è iniziato a risparmiare un bel po’ di milioni di euro. Soldi risparmiati sull’istruzione dei giovani per spenderli in cose illuminanti, per far arrivare ai comuni i fondi tagliati con la falsa abolizione dell’Ici, e per l’infallibile fallimento dell’Alitalia, e naturalmente per progettare per l’ennesima volta il fantasmagorico ponte sullo stretto di Messina: non è questo un Paese che ha perso il senno? La verità è che c’è del senno in questa follia. Siamo all’ennesima escalation della madre di tutte le battaglie: per l’opulentissima Italia i costosissimi figli sono un deficit da abbattere: dire che così si sta solo risparmiando sulla massa mediocre e pigra degli insegnanti è la peggiore delle menzogne. Per gli irrinunciabili giochetti degli adulti, delle infinite caste di questo Paese così stupefacentemente addormentato, si spara a zero su chi non si può difendere: i bambini e i ragazzi. Dovranno combattere solo gli insegnanti, non per un aumento di stipendio, ma per l’amore stesso di un mestiere che in qualunque Paese civile non può non essere sacro? La verità è che è sempre la stessa storia: chi ordina queste cose non ha la più pallida idea di cosa abbia imposto in realtà al Paese. E resta ben attento a mantenersi categorico ed avulso dalle conseguenze dei suoi comandi. Viene in mente quella stupenda viscerale pagina di rabbia del diario di guerra del giovane Gadda che, volontario nella Grande Guerra, mandava le maledizioni più terrificanti a ufficiali e politici parolai che “comandavano” una guerra che mai avrebbero combattuto, e intanto gli alpini non avevano scarpe con cui marciare. Gli insegnanti sono le scarpe della guerra senza fine contro l’ignoranza: le élites continuano a preferirle di cartone. Le élites non amano la scuola perché per primi loro non ne hanno avuto bisogno. Sempre meno la ricchezza ha bisogno di cultura, e vuole convincere – per motivi evidentemente opposti – che lo stesso vale per i poveri: la cosa ricorda i paradossali argomenti della Chiesa cattolica, ai tempi gloriosi della prima unità d’Italia, contro l’obbligatorietà dell’istruzione elementare: perché istruire un povero, se è destinato a restare sempre tale? Certo, poi ci si secca che i cinesi e gli indiani, come già nel medioevo, ci sovrastino; ma senza la voglia di ricordarsi che sono paesi che sfornano, per esempio, centinaia di migliaia di ingegneri veri all’anno. Certo, la morale – ma solo lei - ti dice chiaro che è sempre meglio la gloria oscura dell’insegnamento che la luce chiassosa che avvolge questi sciatti padroni della Terra. Ma questo riguarda solo gli insegnanti, che sono appunto le scarpe, il mezzo, di una missione il cui fine è il bene delle generazioni che adesso stanno crescendo. Il punto rimosso è invece la tassa. La tassa che pagano questi ragazzi, e che si chiama ignoranza: incuria, disattenzione, pura e semplice impossibilità di far fare a chi insegna decentemente il suo mestiere. I giovani sembrano del resto così palesemente superflui in un mondo in cui il passato s’incarognisce a vivere sempre più da vampiro a spese del futuro, che appunto tutto ciò è coerente: non avranno le garanzie sociali di cui hanno goduto i loro genitori, chissà come e se una pensione, chissà quando mai un lavoro degno fuori della sfruttatissima precarietà: perché farli studiare? Quale sarebbe il fine? Da troppo tempo è saltato qualunque rapporto tra merito, conoscenze e, non tanto successo, ma riconoscimento sociale. Questo orrore è senso comune. L’Italia ama la sua ignoranza, la ostenta, se ne compiace e la diffonde. I figli dei cosiddetti ricchi sono mandati in scuole private non certo per la migliore qualità, ma perché perfino il non molto che riesce a garantire e pretendere la scuola pubblica è “troppo”: si va dai privati a comprare direttamente il diploma come un cellulare al centro commerciale. Si continua insomma a sparare da una parte sola: gli adulti contro i giovani. Se l’amore è attenzione e cura, dove allora sono i genitori italiani? Cosa pensano? Guardano più i loro figli o la televisione? E insomma: che idea strana hanno dell’amore se sono contenti di questo? Francesco Carbone
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