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 | Storie dell’Ottocento: sposare una maestra a cura di Annalisa Santi 
 
	Riandare con il pensiero alla figura 
	della maestra nell’Ottocento non è soltanto un’importante commemorazione 
	storica che testimonia la nascita e l’affermazione della categoria 
	magistrale, ma è anche la significativa volontà di riappropriarsi di un 
	passato “delle origini” che appartiene a noi tutte insegnanti elementari. 
	Fin dall’inizio della sua storia l’insegnamento venne considerato una sorta 
	di “missione” a cui votarsi e alla quale dedicare interamente la propria 
	vita. Una missione totalizzante che investiva sia la sfera pubblica che la 
	sfera privata, nella quale il matrimonio, obiettivo che riguardava tutte le 
	donne di “casa”, non era previsto. Nella mentalità comune una donna che 
	lavorava dalle sei alle otto ore fuori di casa non poteva essere la moglie 
	ideale: lo svolgimento delle faccende domestiche richiedeva allora un’enorme 
	quantità di tempo ed energie, energie che alle maestre venivano appunto 
	sottratte dalla scuola. Insegnare si presentava come un lavoro alquanto 
	faticoso anche dal punto di vista fisico: la maestra doveva raggiungere a 
	piedi la propria scuola, spesso situata lontano o in luoghi disagevoli. Una 
	volta arrivata doveva adoperarsi per il riscaldamento delle proprie aule e 
	per organizzare anche fisicamente la lezione. L’arrivo della scolaresca, di 
	solito una pluriclasse numerosa con più di quaranta alunni di età diverse, 
	segnava l’inizio di un’intensa mattinata scolastica. Non di rado la maestra, 
	oltre alle lezioni regolari del mattino, doveva assicurare la sua presenza 
	anche nei corsi serali e festivi per gli adulti. Tali iniziative, 
	organizzate dai Comuni, avevano sì il lodevole scopo di ridurre 
	l’analfabetismo, ma ricorrevano di fatto al medesimo personale che svolgeva 
	il servizio al mattino, di fatto oberandolo con doppi turni di lavoro.La 
	ricompensa per le molte ore dedicate alla scuola era tutt’altro che 
	generosa, i salari erano molto bassi, soprattutto nelle scuole rurali: un 
	uomo che sposava una maestra avrebbe avuto una moglie che per sole 330 lire 
	annue sarebbe stata impegnata buona parte del giorno in scuole malsane, 
	umide e malriscaldate. Una maestra era spesso a rischio di malattie come la 
	tubercolosi, mentre una florida robustezza e una buona salute costituivano 
	delle qualità irrinunciabili nella scelta di una moglie: tali prerogative 
	appartenevano più alle contadine e alle operaie, che alle maestre. La loro 
	stessa giovinezza, trascorsa a studiare nelle stanze buie e spartane dei 
	conventi, diventava un marchio caratteriale che le accomunava più alle 
	monache che alle altre donne. Da ciò scaturiva la convinzione popolare che 
	esse fossero giustamente destinate ad una condizione di eterno nubilato. 
	Riguardo la sfera morale, la remissività veniva considerata una qualità 
	femminile irrinunciabile: al momento dell’assunzione in servizio (che 
	seguiva criteri molto discrezionali), venivano preferite quelle maestre che 
	davano prova di assoluta sottomissione: nessun Comune ne avrebbe assunto una 
	che si battesse per i propri diritti e che rivendicasse l’autonomia del 
	proprio lavoro. L’aspirante maestra non avrebbe mai dovuto porre in 
	discussione l’autorità maschile, compiendo il tentativo esecrabile di 
	rovesciare gli atavici ruoli sessuali del comandare e dell’ubbidire. Tutta 
	la comunità avrebbe trovato sconveniente avere in paese una maestra che 
	andasse a testa alta per la strada, in modo “sfrontato”, rifiutando di 
	piegarsi al ruolo servile che da essa ci si attendeva. Possedendo simili 
	requisiti diventava impossibile sia trovare un lavoro, sia un marito.  | 
 
 
 
 
 
 
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